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All’origine delle fake news

Social Network , 19 Febbraio 2018
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Credulità collettiva, narcisismo e social media

Chi, con l’avvento della rete, aveva auspicato la nascita di una nuova era dell’informazione che accomunasse l’umanità tramite “un vettore di sviluppo e crescita dell’intelligenza collettiva”, per usare le parole di Lévy, probabilmente si è già ricreduto.
Internet ha dato a ognuno di noi la possibilità di accedere senza mediazioni a qualsiasi contenuto, ma parte dell’informazione disponibile in rete è inaffidabile e chi non dispone degli strumenti necessari per distinguere l’informazione corretta da una bufala potrà addirittura preferire la seconda alla prima. Vi sembra impossibile? Cerchiamo di capire meglio questo meccanismo.
 

Qual è la tua tribù?

Come sottolinea nel libro “Misinformation” il Prof. Quattrociocchi, fondatore del Laboratory of Data Science and Complexity presso l’Università Ca’ Foscari, non è possibile riflettere su questi temi senza considerare i meccanismi che riguardano sia l’aggregazione delle informazioni sui social che dinamiche psicologiche come il confirmation bias, il fenomeno per cui privilegiamo le informazioni che consolidano le nostre opinioni. 
È proprio questa tendenza che ci porta a circondarci di contatti che la pensano grossomodo come noi e con i quali creiamo delle comunità virtuali coese, che si rapportano invece poco (e male) con le altre “tribù”. Politica, economia, salute: sono molti i temi su cui ci si scontra nei dibattiti da tastiera e, come dimostrano le ricerche di Quattrociocchi, la comunicazione online tende a fortificare la polarizzazione delle opinioni. Ci chiudiamo in echo chambers, “casse di risonanza” nelle quali interagiamo con chi sostiene la nostra prospettiva: un meccanismo tanto rassicurante quanto pericoloso. 

All’origine delle fake news

Nella rete del narcisismo 

Gli studi dedicati ai processi di viralità delle informazioni hanno dimostrato che gli utenti sono propensi a condividere notizie poco credibili o non verificabili, a patto che siano in qualche modo coerenti con le loro convinzioni. E se chi “abbocca” facilmente alle bufale del web ci fa sorridere o arrabbiare, dobbiamo tenere presente che alla base di tutto questo c’è un meccanismo che accomuna tutti noi. Si chiama esposizione selettiva e l’algoritmo di Facebook la rinforza esponendoci ai contatti più simili a noi ed escludendo invece le voci contrarie. Lo stesso vale per le ricerche personalizzate su Google e le liste su Twitter. 

Internet, insomma, ha radicalizzato la dinamica psicologica del “pregiudizio di conferma”. Ognuno di noi può trovarsi a vivere in un mondo virtuale che sembra fatto su misura per sé e appagare così il proprio bisogno di omologazione: si gioisce, ci si lamenta, ci si indigna fra simili. Alla necessità di approvazione e conferme non sfugge nessuno: la vanità, in rete, la fa da padrona. Cerchiamo il nostro nome online (egosurfing), descriviamo la nostra vita e le nostre emozioni in foto, post, commenti e reazioni e aggiungiamo filtri alle nostre esperienze perché siano più “instagrammabili”. Esiste ormai una vasta letteratura scientifica sul “narcisismo digitale”: il nostro ego si nutre quotidianamente di like, cuori e retweet.

Fake news e analfabetismo funzionale

In tutto questo, il World Economic Forum parlava già nel 2013 dei pericoli dell’esplosione digitale, con un focus particolare sulla viralità delle fake news. Il ruolo che è stato di giornali, radio e televisione sulla formazione dell’opinione pubblica oggi viene assunto dalla rete. Ciò che rende questo passaggio rivoluzionario è che dal one to many siamo passati al many to many: siamo tutti emittenti e potenzialmente abbiamo la stessa credibilità. Se abbiamo una rete di contatti sufficiente a darci spazio, possiamo veicolare informazioni false o dubbie. E se è vero che altri utenti possono arginarne la diffusione, la correzione non è scontata né immediata.

Ricordate la leggenda metropolitana di “Benvenuto nel mondo dell’AIDS”, richiamata in “Mio cuggino” di Elio e le Storie Tese? Ieri valeva il passaparola o il “l’ha detto la TV”, mentre oggi “l’ho letto su internet”. Ne è un esempio il caso del fantomatico Senatore Cirenga, protagonista di un post in cui si diceva che secondo una sua proposta di legge sarebbero stati stanziati 134 miliardi di euro come sussidio per i politici non rieletti. Il classico post che si conclude con la formula “Condividi se sei indignato”. Effettivamente ebbe un’enorme diffusione e ben pochi si resero conto degli errori che presentava o si presero la briga di verificare l’esistenza di Cirenga, personaggio di fantasia.

Come sa chi segue la pagina “Adotta anche tu un analfabeta funzionale”, l’incapacità di comprendere e analizzare testi è molto diffusa. Secondo l’Ocse, nel nostro Paese gran parte della popolazione non è in grado di decifrare le informazioni con cui entra in contatto. Un fenomeno preoccupante che produce anche effetti comici, come nel caso del trabocchetto teso a Maurizio Gasparri su Twitter da un troll che gli chiese di esprimersi sul caso di un certo Goran Hadzic, pericoloso rapinatore slavo lasciato in libertà. Peccato che l’immagine condivisa raffigurasse Jim Morrison, ma molti non lo notarono. 

Le fake news sono accomunate da uno stile comunicativo peculiare: dati vaghi, errati o difficilmente verificabili, domande retoriche, punti esclamativi in eccesso. Il loro linguaggio parla “alla pancia” degli utenti, perché le emozioni che suscitano sono più importanti dei fatti, ragione per cui le smentite ufficiali raramente hanno effetto. Pensiamo a canali dichiaratamente satirici o parodici come Lercio o Il Fatto QuotidAIno, che qualcuno prende per fonti attendibili, oppure alla frase attribuita a Pertini: “Quando un governo non fa ciò che vuole il popolo, va cacciato via anche con mazze e pietre”. Nonostante l’ex Presidente della Repubblica non l’abbia mai pronunciata, il meme continua a circolare. 

All’origine delle fake news

Caccia alle bufale

Insomma, la complessità dei meccanismi che stanno alla base della diffusione delle bufale online non va sottovalutata. Le spiegazioni degli esperti contro le teorie complottiste, per esempio, possono rivelarsi inutili perché non raggiungono il pubblico a cui vorrebbero arrivare, oppure ottengono il risultato opposto a quello sperato, scatenando reazioni aggressive e fortificando distanze e scetticismi. Gli sforzi dei debunkers spesso non sono premiati proprio perché questi fenomeni si sviluppano a partire da dinamiche sociali e psicologiche profonde. I tentativi di intervenire senza tenere conto di questi fattori sono destinati a fallire.